Via Prenestina, 27
Tel. 0775.56049
www.salvatoretassa.com
Sempre aperto. Chiuso il lunedì e martedì a pranzo e domenica sera
di Nico Piro*
Sapendo di dover trascorrere la Pasqua a Roma e per giunta di dover coprire la fascia serale del mio Tg (leggi obbligo di arrivare in redazione nel tardo pomeriggio) ho deciso di prenotare alle Colline Ciociare di Salvatore Tassa per il pranzo di Pasqua ad Acuto, poco distante da Fiuggi.
Un’ora di guida dal centro di Roma almeno se non usate il TomTom, il popolare navigatore che – digitando l’esatto indirizzo delle “Colline” – vi porterà ad una pizzeria al taglio nel cuore della cittadina termale.
Ho scelto Tassa, non solo per il desiderio di ritornarci, ma per il bisogno di vivere una Pasqua “tradizionale”. Si avete capito bene, per quanto contraddittorio possa essere il definire Tassa “tradizionale”. In realtà non volevo finire nella spirale della “tradizione classica” che, in questi giorni di festa, finisce con il farti trascorrere tutto il pranzo pensando ai sapori (ben migliori) vissuti sulla tavola familiare magari da bambino. E’ il ricordo che sconfigge quasi sempre il sapore di quello che stai mangiando e che quasi mai assomigliare a quello che ti aspettavi.
Paura
L’ultima volta che sono stato da Tassa era il dicembre del 2008, di mercoledì. Il combinato disposto del giorno infrasettimanale, dell’imminenza delle feste natalizie e della pioggia che veniva giù senza sosta, trasformarono me e mia moglie, Elizabeth, negli unici due clienti a pranzo del ristorante…priceless la battuta: “l’ho prenotato tutto per te!”
Per cui oltre ai piatti indimenticabili del grande Tassa abbiamo potuto godere, quella volta, anche di un servizio ultra-personalizzato e curato dal direttore di sala, in persona, il figlio dello chef. Un episodio che, tra l’altro, mi ha scatenato una serie di riflessioni su quanto sia difficile tenere nel territorio del profitto ristoranti di provincia che hanno tante spese fisse e hanno l’obbligo di essere sempre al top, che i clienti in sala siano due o duecento.
Avevo paura che tornandoci il giorno di Pasqua avrei vissuto una delusione da sala affollata e comunque per un cliente esigente e polemico come me, sarebbe stata la prova del nove cui sottoporre il ristorante di Acuto.
In realtà ho trovato più o meno 25 coperti divisi tra la sala centrale e la saletta privata, senza tavoli aggiunti per far cassa nel giorno di festa. Nonostante fosse stato allestito un “tavolone familiare”, tutti gli ospiti potevano contare sulla “distanza di sicurezza” tra i tavoli ed inoltre c’era – in pratica – un cameriere per tavolo.
All’arrivo, la sorpresa: sul tavolo il menù di Pasqua, unico per tutti. Sorpresa – si dirà – scontata. Ma per capirla bisogna tornare indietro di due settimane. Al momento della prenotazione, alla voce femminile al telefono, avevo chiesto: “ci sarà un menù di Pasqua?”
“Ci saranno i piatti di Salvatore!” la risposta in modalità “difensiva”, della serie non aspettatevi cose tradizionali. E il mio insistere, spiegando che era quello che cercavo, che conoscevo lo stile dello chef, non è servito ad avere altro che risposte “elusive”.
Un piccolo aneddoto che, secondo me, racconta bene come i ristoratori italiani di qualità – soprattutto al centro-sud – “comunichino” male.
Comunque, ecco davanti a noi il menù di Pasqua…una decina di portate (considerando anche il pre-dessert e quelli che riduttivamente sono stati definiti gli “snack” pre-antipasto), al prezzo di 90 euro. Per carità, parliamo di cifre che non tutti hanno la fortuna di potersi permettere ma in un’Italia dove ormai per un piatto di carbonara e una fettina ai ferri si finisce con lo spendere 50 euro a persona o una serata in pizzeria te ne costa almeno 20, in luoghi come il ristorante di Tassa il tuo denaro continua a mantenere il suo valore. L’ho pensato vedendolo l’imponenza del menù e ne ho avuto la certezza a fine pasto.
In aggiunta, con 30 euro si offriva un abbinamento di vini. Scettico su come l’abbinamento si riduca, in molti casi, ad “un” (leggi 1) calice ogni due portate e desideroso di togliermi qualche sfizio dalla carta ho inizialmente declinato l’invito ma mia moglie (santa donna!) ha insistito e devo dire che aveva ragione.
Ottimi abbinamenti ad esaltare i piatti; un percorso curioso sia per produttori che per vini; bicchieri mai vuoti – cosa che non gusta mai, in particolare nei giorni di festa.
Insomma, ancora una volta, il valore del denaro rispettato. In pratica avremmo speso molto di più (senza la stessa efficacia negli abbinamenti con i piatti) se avessimo voluto seguire alla carta, un percorso analogo dalle bollicine al vino da dessert.
Non vorrei sembrarvi troppo attento al conto ma viviamo pur sempre in un Paese in profonda crisi economica e se in America si parla di “recession food” ci sarà pur un motivo.
I piatti
Ma veniamo alla sostanza. Abbiamo cominciato a brindare con un corposo Franciacorta “Nature” di Enrico Gatti, ottimo per pasteggiare oltre che per alzare i calici – di quelli così buoni che ti fanno capire quanto abbia fatto male alla ristorazione italiana l’abuso di bollicine (scadenti) ad inizio pasto.
Via ad una raffica di assaggini che a me sono sembrati “sperimentali” ovvero l’embrione di qualcosa che verrà. Forse nel dubbio “nominale“ del work in progress, i camerieri ce li hanno presentati con la riduttiva dicitura di snack. Ne ricordo almeno cinque, come un’incredibile spuma di cavolfiore con al centro un cuore di aceto balsamico vecchio di 50 anni e poggiato su un emulsione di funghi porcini
I biscotti rustici allo zafferano dove, prima che il sapore, la consistenza (duri all’esterno ma capaci di precipitare in soffici briciole all’interno) introduce ai giochi gastronomici della giornata che sarò tutto un gioco di materia dalla gelatina (come quella al Campari che fa parte degli “snack”) all’impasto.
Per finire il giro, la perla di pinoli in carta di riso (un raviolino) in brodo di rosmarino.
Lascia nel piatto segni pollockiani, l’antipasto tra il magenta e l’oro. E’ “rape rosse al Campari, vignarola di fave e piselli con aringa laccata”. La vignarola, nel Lazio, è un’insalata dell’orto ma in quella di Tassa si passa dal dolciastro delle fave a quello alcolico del Campari fino al salato dell’aringa, in un gioco di contrasti esaltato dal gusto di “pera sciroppata“ del Riesling di Elena Walch (l’annata non me la ricordo…mica sono un critico!?) che intanto era finito nel nostro bicchiere.
Arriva lo chef a precisare che, al volo, ha aggiunto alla ricetta anche l’ostrica…e la gradazione nel passaggio dal dolce al salato adesso è ancora più completa.
Passiamo poi alla “minestra aromatica di cipolla e pomodoro” che Tassa ci dirà poi essere il piatto a cui punta di più per quest’anno (l’ha detto anche agli ospiti al tavolo di fianco quindi la fonte è doppiamente verificata).
Il piatto è metafisico, nel brodo biondo l’acidulo del pomodoro si sente tutto ma non ce n’è traccia materiale mentre galleggiano alcune “barchette orientali” di cipolla, briciole di pane e dadini di rapa bianca. Il figlio dello chef ci spiega che per fare questa brodo, si centrifugano tre tipi di pomodoro in grande quantità con l’aggiunta di una punta di lime.
Inizia così il viaggio ormai alchemico della giornata, il gioco di Tassa sembra essere quello di riproporre sapore ancestrali, antichi (in questo tradizionali) ma attraverso scomposizioni e incroci inediti.
A raffica passiamo alla “lasagna ai profumi di terra”, un’unica sfoglia di pasta ripiegata su se stessa in ragù di agnello dove l’acidulo del pomodoro riprende a giocare con il dolciastro della mozzarella di bufala, trasformata in crema. Ma il massimo della sorpresa sono i “ravioli di pecorino liquido”. La pasta è tesisissima ed esplode in bocca (fa “pop” l’ho giuro, l’ho sentito) lasciando andare il suo contenuto di formaggio che – si racconta – sia stato lavorato a mano per un’ora e mezza fino a diventare cremoso.
Nel bicchiere intanto c’è un’Orcia rosso de “Il Pozzo” (Elizabeth punta sull’alternativa di territorio, un Cesanese che scalciava e di cui non ricordo la cantina…nonostante i miei sforzi di rintracciarne oggi l’etichetta su Internet) e si passa all’ “agnello da latte con purea di patate affumicato”. Il sapore indimenticabile di un contorno (di solito) così banale e la croccantezza della foglie di spinaci nel piatto, sono quei fondamentali che rivelano l’artista.
Un’aleatico salentino e un muffato di Antinori aprono la sequenza del dessert assieme a un vassoio di biscottini. Stupisce il bicchiere dove galleggia nel vuoto la “granita di mela verde, assenzio e crema d’olio”. In realtà con tanta pazienza nel bicchiere era stato “costruito” un cono di ghiaccio vuoto (ritorna l’alchimia) che si rompe al contatto con il cucchiaio e dà corpo alla granita che è quasi una “grattachecca”.
Da “terra e grano” mi sarei aspettato una sorta di pastiera e un po’ mi ha deluso ma le lenticchie che ho scovato tra i due biscotti mi hanno confortato e meravigliato: bollite nell’acqua alla vaniglia e laccate col cioccolato.
Qualcuno è pronto a testimoniare che abbiamo bevuto anche un rhum agricolo di 45 anni ma il mio portavoce smentisce seccamente.
E’ poi lo chef a passare tra i tavoli distribuendo una sorta di composta (o scomposta) di millefoglie e si chiude così il giro dei dolci.
Proprio la frequente presenza dello chef in sala è stata una delle cose più belle della giornata. Nonostante il ristorante pieno ed un menù – immagino – impegnativo ai fornelli, Salvatore Tassa è più volte venuto ai tavoli e a fine pranzo ha salutato ognuno dei clienti all’uscio del ristorante.
Ho molto apprezzato il passaggio iniziale, quando oltre a salutarci ha raccolto (dialogando e proponendo alternative) la richieste di variante al menù avanzate dai singoli clienti, per esempio di mia moglie che non mangia carni rosse come l’agnello previsto in menù (sostituito da una faraona).
Ho apprezzato molto il suo desiderio di sapere come erano stati accolti i singoli piatti. Un dialogo con il pubblico che aiuta noi clienti a capire, ad apprezzare e che dà identità alla giornata. Del resto, oltre alla tavola – penso – in ristoranti del genere conta sempre più il valore dell’ “esperienza” in sè.
Tra l’altro, secondo me, la presenza in sala ha anche un valore aggiunto oltre a questo dell’ospitalità, ovvero aiuta uno chef a tenere tutto sotto controllo “alla sua maniera”. Troppi i ristoranti nei quali ho mangiato di recente, dove la sala non era all’altezza del “maestro” ai fornelli.
*Non mi occupo per mestiere di enogastronomia nè sono stato da Tassa per scrivere una recensione.
Lavoro nella redazione “esteri” del TG3 e nel mio blog (www.nicopiro.it) scrivo tutt’altro che di cucina, ma ho la passione per la buona tavola e una regola: andare al ristorante poche volte (all’anno); poche ma – letteralmente – Buone!
Ogni volta che mi capita di incontrare qualcosa di interessante o di deludente per ristoranti mi attacco alla mail e lo segnalo a Luciano Pignataro, amico di vecchia data di cui ammiro il gran lavoro per valorizzare l’enogastronomia – in particolare quella campana e del nostro amato Sud.
Stavolta Luciano mi ha incastrato. Ed eccomi qua
Terra, il piatto di Salvatore Tassa a Identità Golose
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