So bene che a quelli che hanno meno di 45 anni quel che scrivo adesso non vuol dire nulla, a meno che non siano appassionati studiosi di filosofia. Oggi vi sembrerà strano, ma negli anni’70 uno dei temi centrali del dibattito culturale fra noi giovani, parlo di generazioni intere e non di gruppi di segaioli, era il rapporto fra materialismo dialettico e materialismo meccanicistico, un border line, questo, con il Positivismo di Comte. Il primo sviluppa il proprio ragionamento attraverso il processo di tesi, antitesti e sintesi, ha una visione assolutamente ottimista della storia umana perché vede la società in crescita oltre che in evoluzione, come il divenire di Eraclito: una scala elicoidale che porta sempre più in alto come quelle disegnate dal Vanvitelli. Il secondo, apparentemente progressista, frutto cioè della costola sinistra dei seguaci di Hegel, era in realtà considerato conservatore perché sfiniva in un determinismo tutto sommato fatalistico ove l’uomo poco o nulla poteva per cambiare le sorti già determinate fisicamente e chimicamente. La sintesi di questa posizione, duramente criticata da Marx ed Engels, era espressa dal filosofo Ludwig Feuerbach, autore della celeberrima frase <L’uomo è ciò che mangia>.
Da ragazzi abbiamo sempre duramente contestato questo assunto, facendo un parallelo fra l’evoluzionismo di Darwin e quello di Jean-Baptiste de Lamarck, si sosteneva insomma che nel rapporto fra il soggetto e l’oggetto, l’uomo e la società, c’è un elemento altrettanto determinante, ossia la coscienza di se, quella che Rousseau definiva <Volontà del Popolo> e che poi si è tramutata nel marxiano <Coscienza di Classe>, ossia la consapevolezza della possibilità di incidere nel mutamento, indirizzarlo, dargli un valore a patto di essere organizzati e dargli una gerarchia. Quel che manca oggi.
Le generazioni italiane oscillano fra questi due poli, ci sono quelle che hanno fatto la guerra e vissuto l’immediato Dopoguerra e quella del ’68, uomini che sanno bene come sia importante stare insieme, creare la rete, per cambiare l’esistente e migliorare così la propria posizione individuale. Quando si faceva a botte con la polizia e i fascisti era essenziale essere organizzati, molto disciplinati, avere fiducia nell’altro. Sono, siamo, le generazioni <militari>, al potere quasi ovunque in questo momento. Poi ci sono quelli troppo anziani nel ’68 (“contavo i denti ai francobolli” di De Andrè) e le generazioni degli anni ’80 e ’90 che vedono il mondo come una giungla non modificabile che si deve attraversare in solitudine, al massimo con il supporto della famiglia. Magari con un po’ di furbizia. E’ il processo di americanizzazione della società nella quale un antipasto ha quasi tremila calorie. Insieme o da soli? Noi o Io? Materialismo dialettico e meccanicistico? Illuminismo o oscurantismo religioso? Ragione o paura? Amore o fuga?
Naturalmente io mi ritenevo iscritto d’ufficio ai sostenitori del materialismo dialettico, ho sempre pensato che quel che vedo può essere cambiato e che una persona non ha ragione solo perché porta una divisa e si veste di autorità. Ma nell’attraversare il mondo del vino devo rientrare anche un poco nei ranghi ove considero il rapporto fra acidità e morbidezza, ossia nella consequenzialità fra gusto e propensione caratteriale, proprio come fra carnivori e vegetariani. Le donne e gli uomini rampanti rincorrono le bistecche ogm e hanno il Suv, hanno il Rolex al polso e non sanno cosa c’è nel bicchiere. Potenziali assassini.
Non c’è nulla da fare: chi ama la morbidezza ha bevuto poco. Meglio: male. Non ha esperienza, non è una persona curiosa, si guarda intorno per difendersi e non per gioia, vola per luoghi comuni, spesso è un pezzo di merda. Siccome la nostra società occidentale è in ripiegamento culturale, ossia non ha modelli alternativi all’oscurantismo religioso islamico e cattolico (Ahmadinejad e Ratzinger pari sono nel sonno della ragione che genera i mostri di Goja), appare chiaro come in questo periodo domina il concetto di morbidezza nei cibi, ossia la possibilità di ricondurre il palato e il cervelllo alle prime rassicuranti poppate dal seno materno. Nelle tagliatelle alla bolognese delle trattorie romane, nel finto lampredotto fiorentino, nello scarpariello con provola affumicata napoletano, nei sofficini,la morbidezza è qualcosa di spudoratamente rotondo e omologante, ha solo la necessità di sedurre chi beve e mangia e di convincerlo che quello sia il migliore dei mondi possibili. La morbidezza è come l’influenza, tutti possono prenderla e patirla, anche i più estremi palati gourmet di fronte a un cioccolatino della multinazionale non possono resistere perché è la costante tentazione di rientare nel porto, a stare a casa, a non farsela con gli sconosciuti, a ritirarsi fra ciò che abbiamo già potuto incassare e tenere bene in caldo, a difendersi dal diverso. Agricoltori e non pastori.
A me la morbidezza fa paura, amo le persone difficili da aprire, quelle <sprucide> perchè sono quella che regalano di più: le puttane sono morbide, la persona che ami è acida. I venditori sono morbidi, gli amici acidi. Gli scalatori sociali sono morbidi, i direttori di banca sono morbidi, i politici sono morbidi, i leccaculo sono morbidi, i traditori sono morbidi. Se dovessi mangiare e bere cibi senza spunti, quelli che fanno obeso un americano su quattro, direi subito che è ora di farla finita, ritrarsi, la fine della storia. Non a caso tutti i cibi e i vini delle multinazionali e negli Autogrill vogliono la morbidezza come valore essenziale per vendere, tutti di fronte al burro e alla mozzarella, o alla cioccolata, alla fine cedono e sono contenti. Se scrivo di vino e di cibo è perché c’è l’acidità, cioè la curiosità che fa salpare le tre Caravelle, lo sguardo di una donna e non di una zia, il rischio e non la certezza, Ulisse viaggiatore e non Agamennone cornuto.
Credo che un vino perfettamente morbido sia, come dice Luigi Moio, no potable, mentre da un vino con una acidità esasperata si può fare una grande champagne, cioè quanto di meglio abbia inventato l’uomo con l’uva da quando esiste la civiltà delle scimmie. A ben vedere, miei cari lettori, un vino è grande nella misura in cui resiste la sua acidità e non invece quando si ammorbidisce. Quando parlate con i terribili mercanti toscani, sempre vi esalteranno la morbidezza come come aggettivo primario per testimoniare la validità positiva del bicchiere, ma io so bene come i grandi Brunello di Franco Biondi Santi hanno la freschezza dalla loro anche dopo 40 anni e questo, cioè non l’assenza di freschezza, li rende ammirevoli e degni di essere vissuti. Me lo ha insegnato la mia amica Antonella.
L’acidità è un valore nella civiltà rurale perché combatte l’appassimento dei cibi, eppure nella società moderna quando si vuole descrivere negativamente un carattere si dice che quella persona è acida. Perché mai la prospettiva è mutata? Semplice: perchè i sistemi di conservazione oggi hanno eliminato il problema della salubrità del cibo nel tempo come nello spazio e dunque è assolutamente essenziale che questi prodotti siano immediatamente commestibili sin dal momento in cui vengono acquistati. La velocità del tempo ha annullato l’acidità che preserva dal tempo come valore positivo. Non solo, oggi poter bere e mangiare quel che hai appena acquistato è un valore aggiunto alla merce.
Va bene, ma c’è una scala etica? Con un giovane e acculturato amico, di cui fra un decennio renderò pubblico il carteggio (mailing), abbiamo dissertato in privato il tema del rapporto fra etica e gusto, lui furoreggia per il sì seguendo inconsapevolmente il buono-pulito e giusto di Petrini, io, precipitato alle soglie della pre-vecchiaia in un relativismo illuministico settecentesco (uno dei miei film compiuti è I misteri dei Giardini di Compton House), penso invece che l’unica etica a cui uniformarsi sia la scoperta del nuovo e non l’apparentamento con il vecchio, no ai contadini, largo ai mercanti di anime, cioè alla comunicazione, alla curiosità, alla crescita spirituale nello scambio. Proprio perché ho molto meno da vivere del mio giovane interlocutore ho bisogno di novità, non di certezze, e questa spinta mi viene dall’acidità del vino, non dalla sua morbidezza. Galoppo sfrenato fra campi di grano dove l’Irpinia e il Fortore si perdono nel Tavoliere, nelle nebbie in cui le giovani streghe cilentane mi catapultano nel quadrato del Pollino e io non so mai come questo sia successo. Dalla gabbia di amianto cancerogeno del giornale a Napoli all’azzurro del cielo sino al buio orribile delle notti fredde: sono schiavo dei loro sortilegi.
I castelli di Federico e i mitra della ‘ndrangheta, questa è la vita, questa è l’acidità.
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