di Gemma Russo
La strada scorre liscia. Traffico permettendo tra venti minuti sarò ad Erchie. Alle 10:30, un piccolo gruppo, proveniente da tutta la Campania, si è dato appuntamento infatti a casa di Giampietro Pinto e Senem Sonmez per conoscere la loro piccola realtà di Abitanti & Viaggiatori Erchie. Lasciata l’auto in uno dei tre parcheggi trovati non appena si imbocca la traversa che dalla Strada Statale Amalfitana porta al borgo, m’addentro per le stradine verso il mare.
Li raggiungo nella piccola cucina in cui ognuno si mette a proprio agio. Due macchinette del caffè borbottano già sul fuoco, mentre Giampietro taglia i limoni con cui preparerà una limonata e Senem è pronta ad accogliere un gruppo di viaggiatori in arrivo. Dalla veranda ci si incanta a guardare il borgo, incastonato nella parete rocciosa, degradare quasi fino alla spiaggia limitata a est da un’antica torre saracena. Il mare è cristallino e gli occhi si divertono a giocare con la roccia calcarea, come si farebbe in inverno con la cenere del camino.
“Nei giardini della Costiera Amalfitana – spiega – la coltura prevalente è quella del limone. Lo sfusato amalfitano si alterna con le viti e sotto ci trovi ortaggi per uso familiare. I giardini sono appezzamenti di terra grandi 2500/3000 metri, non di più! Non so come definirli se non giardini, qui li chiamano così››.
Sono terrazzamenti tipici di questa parte di Campania; la maniera in cui l’uomo addomestica la terra fatta di roccia dolomitico-calcarea, la cui natura percepiamo dal racconto di Giampietro che, insieme alla compagna Senem, l’ha scelta per viverci. La coltiva senza averla nel proprio DNA originario calabrese e flegreo-napoletano, ma questo morso di costa chiamato Erchie, frazione salernitana da sempre contesa, ha imparato pazientemente a conoscere e comprendere attraverso gli aneddoti sapienti degli anziani. Oggi, è parte di questa comunità dove c’è chi ancora vive di pastorizia, mare e terra. Prende un barattolo dal frigo e ne dispone il contenuto sul tavolo per mostrarlo. Sono semi di fagioli locali. Mentre parla, ne esamina la superficie: credo verifichi la bontà del seme conservato. Si vede che le sue mani amano lavorare la terra, ma gli occhi hanno dentro il bisogno di vedere il mare e di prendere in faccia il vento. Ha al collo un’alice di Cetara messa sotto resina. Vivono in Costiera Amalfitana da giugno 2013 e ad Erchie da ottobre dello stesso anno. La scelta non è stata casuale.
“Io e Senem abbiamo incominciato a camminare a piedi queste montagne – racconta -Fin da subito ci sono piaciute. Venimmo per la prima volta in occasione di un suo compleanno. Da lì in poi sempre più spesso. Durante una di queste volte conoscemmo i pastori; erano incuriositi da noi e dal fatto che ci piacessero queste alture estremamente aspre e selvagge dove non ci trovi i turisti. È grazie a loro se, ogni volta, abbiamo imparato qualche cosa di più, compresi tanti sentieri non presenti sulle mappe. Così, con lentezza ci siamo introdotti nella comunità, guadagnandoci la fiducia prima dei pastori e poi delle persone anziane”.
Entrare nel tessuto sociale della comunità reale del piccolo borgo non è stata cosa semplice. Ci hanno messo tre anni per iniziare a parlare con gli anziani contadini e avere la loro fiducia. Ci sono riusciti perché sono diventati braccio degli stessi, imparando a custodire usi, costumi e colture.
“Ad Erchie non c’è più la comunità – ammette – Mancano i servizi, per questo sono rimasti solo pochi anziani. I loro figli, miei coetanei, hanno aperto attività commerciali e non hanno memoria storica di quello che erano; i più non hanno mai preso una zappa in mano. I genitori continuano a farlo. Io e Senem siamo gli unici giovani che si occupano della terra e che, partendo da essa, stanno provando a fare qualche cosa››.
Abitanti & Viaggiatori Erchie accoglie turisti desiderosi di condividere con Giampietro Pinto e Senem Sonmez l’esperienza di un territorio che vive ancora d’ agricoltura, pastorizia e pesca. È una bolla resiliente innescata dall’esterno in un tessuto comunitario le cui maglie sono state fortemente lacerate dal turismo di massa che invade la Costiera Amalfitana. Ha attecchito in questa terra germogliando grazie alla ferma intenzione di opporsi alla gentrizzazione dei centri storici, fenomeno a cui sono sottoposte ormai anche città dalla forte identità, come è Napoli. La parola d’ordine è CONDIVISIONE, perché spartire esperienze comunitarie genera felicità, un costrutto multifunzionale da allevare con costanza. Seduti intorno al lungo tavolo, ascoltiamo Giampietro, dissetandoci con la limonata da lui preparata nel mentre in cui racconta la sua storia. Da fuori si sente qualcuno salire le scale, che portano alla cucina in cui siamo. L’incedere simpaticamente teatrale è rivelato dalla caduta di qualcosa tra i gradini.
“Buongiorno Giampié! Ho fatto un guaio con il cancello salendo. Ti ho portato le alici sott’olio”, esordisce spontaneo.
“Entra, Venà!”, risponde Giampietro, ‹‹Sono tutti amici. Sono venuti a scoprire la nostra realtà!”.
Venanzio Riso con la mano destra inizia a scavare nella borsa che sorregge con la sinistra, estraendo un barattolo in cui si distinguono candide alici svettanti.
“Giampié, è pronta pure la nuova colatura – continua – Stanotte, agg’culata. E comm’è bella! Mi sono seduto nella stanza dove colava e non magg’ vulut’ji a’cuccà. Che profumo… mi sono ubriacato! È quella venuta fuori dalle alici pescate a maggio. Ho filtrato l’acqua stanotte. Profumavano così tanto che in un momento la gente ha comprato tutto. E poi, che colore, che colore… ambra! È quello il colore della vera colatura di alici di Cetara!››
Intanto, ognuno di noi si alza dalle sedute poste intorno al tavolo, rompendo l’attenzione che fino a quindici minuti prima sospendeva lo scorrere del tempo nella piccola cucina. Senem prepara il pane, mentre Giampietro dispone nel piatto parte del contenuto del vasetto che Venanzio gli ha appena portato: aggiusta di sale; aggiunge olio, aglio e peperoncino; colora con prezzemolo fresco. A pescarle è stato il peschereccio Sacro Cuore con una rete detta a cianciolo, che a partire dal 1946 ha sostituito quella chiamata lampara. Quest’ultima, negli anni venti del Novecento, rappresentò un vero e proprio progresso tecnologico nella pesca delle alici che, ammaliate da una sorgente luminosa, erano circuite dall’attrezzo. Soppiantò, al tempo, la più antica menaide che veniva disposta a corrente. Formata da un solo telo a maglie tutte uguali, faceva passare le alici piccole e impigliava quelle grandi che erano tolte dalla rete a mano, una ad una, quasi come se si stesse materialmente scomponendo una partitura musicale.
“Appena pescate -spiega Venanzio – Si toglie la testa e le interiora, facendo attenzione a non togliere ‘o mussillo che è quella parte di pancia appena sotto la testa. Mia moglie Giuseppina è bravissima a pulirle. Riesce a far scivolare fuori giusto quella parte delle interiora che deve essere tolta. Le donne hanno dita piccole e a loro viene meglio. Quanto sale serve? Non molto! A Cetara le alici prima di metterle sotto sale ‘e incruscamm, le mettiamo in una tortiera con del sale sopra e le facciamo stare così per 3 o 4 giorni. Si dice: Alice incruscat’, mezza salata. L’acqua diventa profumata. Solo dopo le scapezziamo, cioè togliamo la testa, e le sistemiamo in vasetti di creta. Ogni strato di alici è ricoperto con sale siciliano. Riempiamo fino all’orlo e poi chiudiamo il vasetto con il tompagno che è un pezzo di legno rotondo. Sopra ci mettiamo delle pietre. Servono a pressare il tutto”.
A Cetara questa tecnica è praticata dall’antichità. Il pesce azzurro ha bisogno di essere consumato in tempi brevi, per cui, quando la pesca era abbondante e la domanda del mercato non riusciva ad assorbire l’offerta, spesso il surplus era rimesso in mare. Gli arguti pescatori cetaresi misero a punto il metodo della salagione, che consentiva di non vanificare gli sforzi della pesca. È ora di pranzo e il piccolo gruppo di camminatori di cui faccio parte oggi è allettato dal profumo proveniente dal piatto messo in tavola. Iniziamo ad assaggiare, componendo piccoli bocconi di pane su cui arrotolare saporitissime e candide girandole fatte d’alici.
“Vado a casa. Vado a mangiare anche io – afferma Venanzio rivolgendosi al gruppo – Cosa mangio? Spaghetti con la colatura. Stamattina mia moglie mi ha chiesto cosa avrebbe dovuto cucinare. Ma come? Abbiamo fatto la colatura nuova! Attenzione però, lo spaghetto va fatto in un certo modo. Prendi una insalatiera e dentro ci metti l’olio, un cucchiaio di colatura per ogni persona che si siede a tavola. Per mezzo chilo di spaghetti ci vogliono 5/6 cucchiai di colatura. Poi, c’aggiungi l’aglio tritato e il prezzemolo fresco; non metti il peperoncino. Quello l’utilizzano i cuochi quando devono nascondere i sapori. Nello spaghetto con la colatura devi sentire le alici. Sopra gli spaghetti ci va pure una spolverata generosa di origano. Io ci metto quello raccolto sulla nostra montagna. A Cetara è tradizione fare piatti a base di colatura alla vigilia dell’Immacolata, il 24 e 31 dicembre. Io, invece, la mangio tutte le sere. Faccio festa tutte le sere!››.
Salutati Giampietro e Senem, c’addentriamo nelle curve della costiera, rese bisbetiche dall’affollato turismo di massa a cui sono sottoposte durante il periodo estivo. Godiamo dell’ameno paesaggio, fortemente antropizzato, ma in cui sopravvivono a macchia di leopardo realtà resilienti, scampate all’invadente globalizzazione.
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