di Raffaele Bracale
Pomodorini del piennolo del Vesuvio, alici sotto sale cetaresi e fresella cotta a fascine di S. Sebastiano al Vesuvio.
Cominciamo con una citazione importante: Getta il tuo pane nell’acqua, perché dopo molto tempo lo ritroverai (L’Ecclesiaste, 11,1).
Queste parole, sebbene non si riferiscano espressamente alla fresella, ma al pane raffermo, calzano alla fresella come un guanto. Infatti la fresella napoletana, e meridionale in genere, altro non è che una fetta di pane messa nuovamente nel forno (e dunque biscottata): ma basta spugnarla con un po’ d’acqua, ed ecco che, «dopo molto tempo», quel pane lo si ritrova, pronto all’uso. La fresella è un cibo povero. Nel senso di «adatto ai poveri», perché costa poco.
Ma è povera anche lei, priva com’è di tutto. Anche di grassi, il che la rende perfetta per le diete. Assai piú dei crackers, e dei grissini che son grassi anzi che no, essendo fatti con l’olio, o con altri grassi, nel maldestro tentativo di dar loro un po’ di sapore. Ma proprio qui sta la grandezza della fresella: lei non pretende nemmeno di avercelo, il sapore. La fresella si candida come umile compagna di viaggio, e in questo è impagabile. La sua asciuttezza le rende resistente al tempo e alla distanza: trattandosi di pane già secco in partenza, non può infatti diventare secca.
E soprattutto, non va a male.
Va piuttosto a mare: i marinai, costretti a lunghi mesi di navigazione senza toccare terra, se ne portavano appresso quantità ragguardevoli. Se la mangiavano sul mare, e col mare: spugnandola cioè in un po’ d’acqua salata. In modo da ammorbidirla e salarla al punto giusto.
Non che abbiano smesso di farlo: le classiche gallette, ultima risorsa alimentare in condizioni di emergenza, sono strette parenti della fresella. Forse per via della storia di esploratrice e di giramondo che à, la fresella sta bene con tutto. E con tutti.
La morte sua? Amica dei marinai com’è, il suo elemento è l’acqua. Da quella di mare, già citata, all’acqua dei fagioli. E per restare nel liquido, il brodo di polpo, ed il sugo della trippa (zuppa ‘e carnacotta).
La Caponata
La fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la fresella è come Roma senza il Colosseo, Milano senza il Duomo, Napoli senza il Vesuvio: un’assurdità. Per fare la vera caponata, insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro e il sale (un pizzico). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno ad libitum le acciughe (per l’apporto proteico), uova sode e, talvolta, le olive verdi.
Caponata è nome antico, ma cosí antico che non si sa piú da dove sia arrivato. Certo è che gli antichi osti latini si chiamavano cauponares; e molto piú avanti, alla fine del 700, si lègge del cappone di galera alla siciliana, o cappone di magro.
Il giallo sull’origine del nome
Tornando alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il tarallaro, che batteva incessantemente le strade della città coi suoi mitici taralli ‘nzogna e ppepe contenuti entro una grande sporta, e tenuti in caldo con una coperta. Spesso il tarallaro si portava appresso anche un po’ di freselle (come si vede, ancora una volta in posizione subalterna, mai protagoniste).
Intorno al 1870 questo era il grido del tarallaro: “pe ve scarfà lu vernecale (lo stomaco) dinto a chesta piattella, cótene (cotiche) cu freselle ogneduno sta a magnà!”
Cibo per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella lingua del popolo: il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
A segnalare la familiarità dei napoletani con la fresella, a Napoli questo termine passò, nei secoli scorsi, ad indicare le percosse (‘e mazzate), e l’organo sessuale femminile («Chella guagliona teneva sotto ‘na fresella…»).
Nel passaggio dal vernacolo alla lingua; dal popolino alla cultura, la fresella sparisce. Nei dizionari italiani non compare affatto, se non in quelli gastronomici. Uno per tutti, il Piccinardi, che alla voce frisella (a mio avviso improvvido ed inutile adattamento dell’originaria fresella) o frisedda” recita: «Pane biscottato a forma di ciambella tipico della Puglia e della Campania. Viene fatto con farina bianca o integrale, acqua e lievito di birra. E dopo una prima cottura viene tagliato a metà e rimesso in forno a biscottare. Prima di essere consumato va ammorbidito in acqua fredda….»
Come per la caponata, sull’origine del termine fresella non vi sono certezze. Sgomberiamo per prima cosa il campo dalle false etimologie, che chissà perché sono di solito le piú accreditate: fresella non deriva da fresa. Semanticamente le due cose non ànno visibilmente niente in comune, senza contare che la fresa è nata molto dopo.
E nemmeno proviene da fresillo: in napoletano, nastrino. Anche se la forma oblunga di talune freselle potrebbe richiamare, alla lontana, un nastro.
Certe etimologie verrebbe voglia di accreditarle solo per rendere omaggio alla fantasia degli studiosi che le ànno partorite. è il caso di questa che segue: frisoles, che però in spagnolo vuol dire fagioli. Ed è appunto nella già ricordata acqua di fagioli che un tempo veniva spugnata la fresella. Peccato che, questa pratica fosse solo una delle tante, e certamente non la piú diffusa, tale da poter determinare il nome del biscotto intinto nell’acqua dei fagioli!
Il convento ebolitano dove si è svolta la manifestazione per sostenere il suo recupero: Freselle sotto le stelle
Fresella deriva invece, con buona probabilità, se non certezza, dal latino frendere, che vuol dire, spezzettare, macinare, pestare, stritolare. Plinio usava infatti questo verbo nell’accezione di ridurre in piccoli pezzi, e dalla medesima radice verbale proviene l’aggettivo friabile. Ed in effetti la croccante e ruvida fresella, per esser consumata dev’essere piú o meno ammorbidita nell’acqua o in altri liquidi, e o prima dell’ammorbidimento o dopo va sminuzzata per essere assunta con soddisfazione, anche senza l’aggiunta di condimenti o altro.
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