A Carnevale ogni dolce vale: zeppole e chiacchiere, fritole, struffoli e friciò

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Dolci di Carnevale

di Gemma Gaetani*

Abbiamo da poco archiviato il Natale e l’Epifania, con le reciproche celebrazioni anche alimentari, e dopo esserci ripresi, eccoci di nuovo qui a fronteggiare un momento festivo coi suoi riti alimentari annessi, il Carnevale. I dolci carnevaleschi sono particolari dolci preparati in occasione del Carnevale. Quella del Carnevale è una settimana «grassa», da cui la definizione «grassa» del martedì e ancor prima del giovedì che ne sancisce l’inizio. Quest’anno sarà Giovedì grasso il 16 febbraio e Martedì grasso il 21 febbraio. Si utilizza il concetto di «grassezza», come sinonimo di abbondanza e sregolatezza, in contrapposizione alla «magrezza» che inizierà il giorno di Mercoledì delle Ceneri e, proseguendo per altri quaranta, culminerà con la celebrazione cattolica della Pasqua. È la Quaresima, che, tra altri precetti, richiede al fedele di «astenersi dal mangiare carne e osservare il digiuno nei giorni stabiliti dalla Chiesa». La parola «carnevale» si riferisce, indirettamente, all’alimentazione in periodo quaresimale. Deriva dal latino carnem levare, «togliere la carne», e si evolve nel termine italiano che ci è ben noto e che in origine, come da spiegazione dei linguisti Bruno Migliorini e Aldo Duro, era «riferito al banchetto d’addio alla carne, che si celebrava la sera innanzi il Mercoledì delle Ceneri». Da allora in poi, la carne andava «levata».
Feste sfrenate e banchetti pantagruelici in questo periodo si rintracciano anche prima dell’avvento della religione cattolica. Il rinnovo del ciclo annuale della natura, con la fine dell’inverno che iniziava a fare spazio alla primavera, si celebrava con riti popolari di catartica anarchia totale: la sospensione delle regole permetteva di tornare ad onorarle immediatamente dopo. Nei Saturnali romani si invertivano per un giorno i rapporti di gerarchia: lo schiavo diventava padrone e il padrone il suo servitore.  A Venezia la doppia anima carnevalesca anarchica comportamentale e alimentare trovava il suo culmine: da una parte il mascheramento, che permetteva di essere chi non si è, messa in scena individuale del caos prima del ritorno allo status quo della propria effettiva identità, dall’altra la festa sregolata anche delle fauci e dello stomaco e, insieme, la mescolanza di entrambi gli aspetti nella condivisione collettiva del festeggiamento cittadino. Per il banchetto del Martedì Grasso veneziano, nel Rinascimento si uccidevano un toro e dodici maiali, allusione zoomorfa al Doge e ai suoi canonici, si cuocevano allo spiedo e si distribuivano al popolo, si portavano pani speciali ai carcerati perché fosse festa anche pero loro e ricchi e poveri interagivano nelle feste in condizione di perfetta parità, poi, finita la festa, via le maschere e si ritornava alle regole, anche quelle cattoliche del digiuno quaresimale.

Per tanti, il magro era, in realtà, la norma alimentare di tutto l’anno. Ogni famiglia di campagna allevava il suo maiale e poi lo uccideva tra dicembre e febbraio, quando superava il quintale di peso, per avere garantite proteine e grassi per i mesi a venire in aggiunta a una dieta che era principalmente e costrittivamente vegetariana, dato che si consumava carne quasi esclusivamente nei giorni di festa e talvolta nemmeno in quelli. Ecco perché protagonista dei banchetti carnevaleschi era il maiale. Dopo la macellazione si preparavano salumi da consumare dopo la stagionatura e poi si estraeva tutto quello che si poteva da quel corpo animale appositamente allevato per la sussistenza, come, per esempio, lo strutto, che andava consumato almeno in gran parte prima del magro quaresimale. Ecco, ancora, perché a Carnevale si friggeva, sia singolarmente, sia come comunità che festeggia, tutta una serie di bocconcini ideali per la distribuzione durante le feste per le strade. Non solo «frattaglie» salate non conservabili come interiora, sanguinaccio e ciccioli, ma anche dolcetti fritti, tutti nello strutto, per consumarlo.
l’eccezione si fa regola.
La nostra epoca pare avere rimosso ogni guida esistenziale religiosa e slatentizzato ogni pulsione anche alimentare più incontrollata, di conseguenza per molti il dolce a volontà è un appuntamento quotidiano. Con la trasformazione di quelle che fino alla seconda guerra mondiale erano eccezioni, cioè la dolcezza e l’abbondanza, in regole, per molti non c’è alcuna attesa del momento in cui sciogliere le briglie ai cavalli della golosità, perché la golosità è diventata la regola alimentare. Tuttavia, resta che ogni regione e talvolta città o paesino dello Stivale ha le sue versioni dei dolcetti fritti di Carnevale, eredi delle frictilia, dolcini fritti nel grasso di maiale che nell’antica Roma si preparavano nel periodo dei Saturnalia e dei Liberalia.

Di solito si associano le frictilia alle sole frappe, forse anche per via della uguale coppia consonantica iniziale, ma le frictilia antico-romane comprendono anche i globulos, di forma tonda, quindi possiamo certamente affiliarvi anche le castagnole o i tortelli, che sono palline e non sfoglie sottili e rettangolari come le chiacchiere. Inoltre, secondo alcuni potrebbero essere collegati – nella sola forma a losanga – a un’altra preparazione antico-romana, sentite cosa dice dei fritti di Carnevale I dolci delle feste. 230 ricette per celebrare tutte le ricorrenze dell’anno, Slow Food: «Un loro antenato potrebbe essere il laganum di Apicio, impasto di semola e acqua fritto a pezzi, immersi poi nel miele». Naturalmente, i fritti antico-romani erano fritti nello strutto, usanza oggi perduta in favore dell’olio di semi (ma provate, invece, a friggere nello strutto), non erano un impasto dolce, ma addolcito con miele aggiunto sopra come un topping, insieme a pepe e semi di papavero.
I dolci per il Carnevale sono infiniti. Ci sono i dolci non fritti, alcuni in formato torta, come la schiacciata fiorentina e il berlingozzo, toscani, la crescionda con gli amaretti di Spoleto e il migliaccio napoletano, e altri in formato più piccolo, come le mantovane di Cossato di Biella, sorta di mezzelune ripiene, che si chiamano mantovane perché ricordano le tende mantovane.

Ma il dominio è assolutamente detenuto dai dolci fritti. A forma di pallina, come le castagnole, le brighelle, le fritole di Venezia, gli struffoli umbri, le scorpelle molisane, i tortelli di carnevale lombardi, i friciò piemontesi, a volte ripieni come le fraviole messinesi farcite di ricotta. Oppure dolcini sempre di pasta lievitata, ma fritti a ciambella, come i cattas sardi e come le zeppole, presenza carnevalesca in tante regioni italiane, anche se a volte vengono preparate per San Giuseppe e, per complicare ancora di più, in Calabria, per esempio, zeppole è anche il nome di palline di impasto lievitato salato con patate e acciughe che si preparano a Natale. Fritte sono pure le chiacchiere anche dette bugie, fritti di impasto non lievitato e a forma di losanga. Si chiamano chiacchiere in alcune zone dell’Umbria, nel basso Lazio, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, Milano, la Lunigiana, nell’Emilia del Nord e alcune zone della Sardegna. In Piemonte e Liguria si chiamano bugie, frappe nel Lazio dalla zona di Latina e Aprilia a Viterbo, a Roma, nel nord della Ciociaria, nell’Aquilano, alcune zone dell’Umbria, alcune zone delle Marche e dell’Emilia, cenci in Toscana, cróstoli in Veneto ad eccezione della zona tra Venezia e Padova dove si chiamano galàni, ma potremmo continuare a lungo con varianti locali (pizze fritte nella Romagna interna, intrigóni a Reggio Emilia, risòle a Cuneo ecc.). In linea di massima, si tratta di un impasto di burro, uova, farina e zucchero arricchito con uno o più alcolici e volendo dei semi, che si taglia a strisce, a volte si struttura in maniera diversa dalla semplice striscia, per esempio a nodo (gli intrigoni) o a girella (le rosacatarre molisane), le si frigge e infine spolverizza con zucchero a velo o semolato. Si sta recentemente affermando una versione ancora più dolce delle chiacchiere, la versione glassata di cioccolato o ripiena di creme già pronte, come la Nutella.

Riscoprire lo strutto
Tornando alle frittelle tonde, lo scettro spetta certamente alle fritole, le pallottoline che nel Carnevale veneziano avevano il proprio distributore: la protagonista della commedia Il Campiello scritta da Carlo Goldoni per il Carnevale del 1755, Orsola, è una frittolera e lo è anche quella della splendida tela di Pietro Longhi, La venditrice di frittole. Le fritole sono un P.A.T. del Veneto, tipiche del periodo carnevalesco. Preparate con farina, uova, latte, zucchero, uvetta e pinoli, si friggono e spolverizzano di zucchero semolato e ci sono anche nella variante ripiena che somiglia ai krapfen. Ci sono anche le graffe napoletane (un impasto che contiene farina e anche patate e, pensate, le note zeppole sono la versione delle graffe senza patate), secondo alcuni dirette discendenti, con evidenza anche nel nome, del krapfen tedesco. Il krapfen, infatti, nasce come dolce carnevalesco. In Austria e in Alto Adige viene solitamente chiamato Faschingskrapfen, krapfen di Carnevale, per differenziarlo dal krapfen alle castagne, il Kirchtagkrapfen, che in tedesco si chiama semplicemente krapfen. Anche noto come Berliner Pfannkuchen o più semplicemente Berliner, è una palla appiattita e fritta di pasta lievitata dolce, farcito con confettura di rosa canina e cosparso di zucchero a velo o semolato. A seconda della zona, il krapfen è riempito con confettura di prugne o albicocche, ma anche di panna o crema bavarese e, più recentemente, cioccolato e, oggi, crema di pistacchio, quella che chiamammo Pistacchiella in un articolo passato, perché è diventata la nuova Nutella. Secondo alcuni, anche il krapfen è un’eredità antico-romana, per la precisione dell’aliter dulcia presente anche nel De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, col che torneremmo a bomba, chissà. Alcuni dolci, poi, sono grandi come torte, ma sono una composizione di dolcetti fritti, un assemblamento di castagnole minimizzate, come la cicerchiata abruzzese e la scorrezione di pinocchiata siciliana (d’altronde gli struffoli umbri, praticamente castagnole, sono chiamati struffoli come quelli napoletani, che però sono molto più piccoli e montati a ciambella).
Oggi che non abbiamo maiali appena macellati con le nostre mani di cui consumare un bel po’ di strutto e, soprattutto, che viviamo sempre in una situazione di opulenza alimentare, i dolcetti fritti di Carnevale non sono un modo per concedersi una rarissima e dolce abbondanza, ma restano un a maniera per onorare la tradizione. Ricordiamo, però, l’insegnamento antico e religioso del Carnevale: l’anarchia (anche alimentare) deve seguire e precedere la regola e cerchiamo, allora, di essere parchi prima e dopo Carnevale. Non sovraccarichiamo, poi, durante il Carnevale, il dolce, più di quanto esso sia già dolce. Gustiamo una chiacchiera fritta e basta più di una glassata o ripiena di cioccolato o pistacchio. Ritariamo il fritto dolce in modo che sia solo un bagordo occasionale. E, magari, almeno una fritta facciamola… finta.
Il fritto porta con sé un aumento calorico del piatto finale non indifferente. Vero è che eliminare completamente l’olio da una preparazione fritta la trasforma in un’altra cosa, allora mantenere solo un po’ di olio e non friggere mantiene in parte il gusto e la consistenza di un fritto però, poiché sarà realizzato al forno, potremo evitare l’aumento calorico della frittura vera. Un alimento tagliato a pezzetti medio-piccoli, infatti, assorbe l’olio nel quale viene fritto nella misura del 10% del suo peso.

Il trucco dell’olio

Facendo i calcoli, per esempio, con le patate, non è poco: 1 chilo di patate ha 770 calorie. Sottoposte a frittura, le patatine assorbirebbero 100 grammi di olio, poniamo, di oliva. Quell’ettogrammo di olio evo, con le sue 884 calorie, farebbe lievitare le calorie totali a 1.654. Poiché aumentando l’area di assorbimento aumenta la percentuale di olio assorbito fin oltre il 40%, se tagliassimo quelle patate a chips, che sono ben più larghe delle precedenti french fries, ebbene le nostre chips friggendo assorbirebbero 400 grammi di olio, cioè ulteriori 3.536 calorie che, sommate a quelle delle patate, ci porterebbero a un totale di ben 5.190 calorie. Il finto fritto è un compromesso tra frittura e cottura in forno e si può applicare a tutto, dalle patatine ai dolci di Carnevale: basterà dotarsi di olio spray, spruzzarne un po’ (un velo) sulla carta da forno con la quale dovrete sempre ricoprire la teglia da forno nella quale adagerete il cibo da «fintofriggere» e un po’ sul top della preparazione da cuocere, infornando poi a 200°C e girando a metà cottura. Col fintofritto facciamo assorbire alla pietanza un quantitativo minimo di olio e otteniamo lo stesso la crosticina da reazione di Maillard.

*Giornalista della Verità
Articolo pubblicato lunedì 13 febbraio su gentile concessione dell’autrice e dell’editore


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