Il 2022 è stato l’anno dell’”exploit”, il 2023 della “debacle”. Se la 50 Best costituisce un sismografo delle pulsioni culinarie internazionali, what did happen to italian cuisine? In una calda serata (per le nostre latitudini) del 20 giugno, la giuria più à-la-page del Pianeta ha disvelato i dati secretati per mesi, proclamando (sai che sorpresa, yawn) Central di Virgilio Martinez, chef biancoperuviano, mejor restaurante du mundo.
L’Italia, che lo scorso anno aveva asceso la classifica con ben sei presenze nei primi cinquanta, tra cui il balzo in avanti di Lido 84 (8° posizione) e di Uliassi (12° posizione), vedeva al 10° posto l’eterno ragazzo Max Alajmo delle Calandre, al 15° Niko Romito, al 19° Piazza Duomo di Enrico Crippa, al 29° il St. Hubertus che ha chiuso pochi mesi addietro.
Quest’anno –disastro- anche se alcuni si sono già spesi per sventolare in alto il vessillo tricolore. Scala una posizione Lido 84, diventando a tutti gli effetti il miglior ristorante italiano per la comunità internazionale, ma precipita Uliassi (34° posto), scende un gradino Romito –poca cosa- e, soprattutto, crollano Alajmo e Crippa, rispettivamente alla 41° e 42° posizione. Unica consolazione, l’ingresso del polivalente Enrico Bartolini nelle retrovie (85° posizione).
Cos’è successo, dunque? Uliassi, Crippa e Alajmo da fieri e riconosciuti portabandiera dell’italica tradizione gastronomica sono diretti inevitabilmente sulla soglia dell’obsolescenza, così, in un solo anno solare? Hanno sbagliato performance? Hanno abdicato in favore di terzi?
La 50 Best è la classifica più criticata nei paesi europei a più antica vocazione culinaria, come la Francia e l’Italia. Sì, perché se il Belpaese arranca, non è che i Galletti saltino di gioia, con tutti i grandi ristoranti francesi fuori lista e le presenze sporadiche di insegne parigine perlopiù decontestualizzate, se escludiamo il colto battitore libero Bruno Verjus che arriva al 10° posto con una cucina del mercato che molto deve ai grandi nomi che hanno fatto la storia della cucina d’Oltralpe.
La 50 Best, di fatto, è un sismografo della contemporaneità più spinta, delle tendenze più pressanti, attualmente ammantate di –ismi, tra cui ecologismi, sostenibilismi, anche –spiace dirlo- pauperismi in netto contrasto con il conto finale. Tra le cento sfumature della contemporaneità c’è la velocità, a incedere quasi futurista, che deve essere rappresentata dal board che compone la giuria, anche in netto contrasto con la guida più vetusta, la Rossa, che a volte premia i suoi affiliati con la velocità della tartaruga, non quella di Zenone che era più veloce di Achille.
Così, i giurati piè veloci, con un poco d’ansia, fanno scorrere pedine come fossero a una partita di Mastermind, dove c’è quello più giovane, più sostenibile, più attento ai nativi dell’Orinoco e ai Nambikwara del Mato Grosso, quello che ha la storia più lacrimevole di riscatto, sofferenza sui fornelli e faticosa risalita, quello che in poche parole rispecchia in questo momento la cultura del tempo del nostro tempo filtrata attraverso lo sguardo della comunità internazionale.
A pensarci bene, tutto questo cozza tremendamente con quanto ci sta più a cuore, la tradizione. Che di per sé è conservatrice, tende dall’immutabile al lento, cambia a piccolissimi passi perché tende a cristallizzare episodi e percorsi, piatti e ricette. Che, perdipiù, nel caso del nostro paese è stata oggetto di dibattiti e incontri, specie dopo il Covid-19, quando si è auspicato a gran voce il ritorno del cibo da trattoria, che è l’opposto di quel che la 50 Best premia –salvo lo strano caso di Extebarri che evidentemente piace da pazzi a qualcuno dei giurati, come dargli torto- e che ha contribuito a gettare ancor più confusione nei percorsi della nostra “haute cuisine”.
Così, Uliassi, Crippa e Alajmo hanno semplicemente continuato a tenere l’asticella alta in uno scenario mondiale in cui contano di più altri fattori, dove i sudamericani rappresentano maggiormente il genius loci internazionale e gli spagnoli vengono percepiti come gli ultimi veri rivoluzionari, ad ogni anno gli italiani mostrano di esserci con qualche individualità ma per nulla come movimento, appunto messo ulteriormente in crisi dalle discussioni sul ritorno alla cucina di trattoria e alle ricette ancestrali che ancora non è chiaro quali siano.
Infine, non facciamo peccato se rileviamo che coloro i quali ascendono sono tutti rappresentati o in qualche modo seguiti dalle stesse agenzie di p.r. che comunicano il prodotto nel modo più “cool” possibile, confezionando il prodotto in modo da essere più appetito dalla comunità internazionale di cui sopra. Anche qui, se non ci si avvede dell’assoluta necessità di comunicarsi in maniera vincente, non si percorre la strada lastricata d’oro. Il nostro leader all’estero, Massimo Bottura, l’ha compreso molti anni addietro e, infatti, resta il nostro chef più rappresentativo anche se la 50 Best l’ha inserito nella Hall of Fame.
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