di Cosimo Torlo
“I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra” (Italo Calvino)
Prima della Resistenza.
79 anni fa ci liberavamo dal fascismo, grazie ad un manipolo di partigiani e alle forze alleate, ho pensato allora fosse utile raccontare cosa era la vita a tavola ai tempi dei nostri nonni, nel mio caso dei miei genitori per dire semplicemente che se c’è l’hanno fatta loro possiamo farcela anche noi. L’alimentazione degli italiani sotto il fascismo iniziò ad essere scarsa ben prima delle, peraltro limitate, sanzioni economiche votate dalla Società delle Nazioni alla fine del ’35 in seguito all’aggressione italiana all’Etiopia. I problemi alimentari cominciarono dal pane, elemento base della dieta nazionale. Anche la pasta era insufficiente e, per limitare le importazioni di frumento, venne incoraggiato il consumo di riso che, invece, era in sovrabbondanza. A tal fine la propaganda fascista condusse una violenta quanto assurda campagna denigratoria contro spaghetti e maccheroni che vide scendere in campo il futurista Filippo Tommaso Martinetti.
In risposta alle sanzioni, l’autarchia entrò in cucina, inventando surrogati ed eliminando pietanze ormai introvabili. Secondo un’inchiesta del Bureau International du Travail del ’37 il vitto di una famiglia piccolo borghese e operaia era costituito da: “pane e poco companatico a colazione; minestra abbastanza lunga a mezzogiorno; pane e polenta la sera, con companatico il meno costoso come baccalà, saracche o simili”.
Con l’entrata in guerra fu introdotto il razionamento e la religione del risparmio raggiunse il suo apice; nelle riviste femminili le donne italiane trovarono ricette per riciclare bucce e torsoli di mele, gambi di prezzemolo e di cavolfiore. Nulla andava buttato via, tutto poteva trasformarsi in surrogati; si trovò persino la maniera per fare la crema senza uova, la marmellata senza zucchero, l’insalata senz’olio e le costolette senza carne, mentre la farina di castagne suppliva il colore del cioccolato.
Il caffè venne bandito, ma comunque dopo il ’40 era divenuto praticamente introvabile persino per i benestanti. Circolava solo qualche piccola quantità di caffè non tostato.
Fin dal ’40, anche le banane “imperiali” importate dalla ex colonia somala non erano più giunte in Italia, dal ’43 venne a mancare anche la frutta meridionale. La frutta di produzione locale non era commercializzata oppure aveva prezzi elevati.
Nei ristoranti e nelle trattorie, che lo stato di guerra aveva declassato a mense popolari, per chi disponeva di soldi il “rancio unico” (minestra, verdura, frutta) poteva riservare succulente sorprese: la “verdura” dello spartano pasto tesserato poteva diventare tacchino o pollo nascosto da una montagna di fagioli o piselli.
Ma a partire dal ’41, secondo anno di belligeranza italiana, la situazione andò progressivamente aggravandosi e nelle città bombardate cominciò ad aggirarsi lo spettro della fame.
Incubo quotidiano
Nel ’43, dopo l’armistizio e l’8 settembre, nelle regioni del centro-nord sotto la Repubblica di Salò e l’occupazione nazista, il problema dell’alimentazione sarebbe divenuto praticamente l’incubo quotidiano di tutta la popolazione civile, ma persino per i militari della Guardia Nazionale Repubblicana: Gravissima la situazione nelle grandi città, mentre nelle cittadine di provincia e nelle campagne, grazie alle produzioni locali, era ancora possibile un minimo di nutrizione degna di tale nome. I contingenti di merci razionate assegnati alle province erano sovente insufficienti, quasi sempre in ritardo, molte volte non arrivavano affatto. Ormai introvabile il sale, anche il pepe, come tutte le spezie orientali, vanamente sostituito dalla “pepina”, un improbabile miscuglio senza sapore, e da qualche ormai vecchia scorta senza più fragranza.
L’alimentazione partigiana
Se questo era, seppur sommariamente, il quadro generale per tutta la popolazione, si può facilmente immaginare che quanti scelsero di andare sui monti a condurre l’aspra guerra partigiana e quanti rimasero nelle città a condurre nella clandestinità la lotta armata, dovettero innanzi tutto far fronte al problema delle loro necessità alimentari. Sull’argomento è possibile raccogliere numerose testimonianze che indicano, come è ovvio, una molteplicità di condizioni e di contesti. Al Nord, nelle Langhe, una prima fonte di approvvigionamento furono i magazzini dell’ormai disciolto regio esercito italiano, o quanto restava di essi, come scrisse Nuto Revelli:
“Successivamente il problema dei viveri venne risolto in vario modo, dall’acquisto presso i contadini alla requisizione più o meno forzata nei confronti dei proprietari più ricchi, dall’esproprio a spese dei possidenti fascisti al prelievo di beni con rilascio di buoni del Comitato di Liberazione Nazionale. Inutile negare veri e propri casi di furto, seppur rari e generalmente causato da emergenze, ma è altresì da segnalare il fatto che spessissimo la popolazione divise spontaneamente il poco che aveva con quanti erano alla macchia.”
In altri casi, nonostante i gravi rischi di ritorsioni fasciste, i contadini preferirono spontaneamente offrire bestiame e grano ai partigiani piuttosto che consegnarli all’ammasso imposto dai “repubblichini”. Fu comunque una “guerra dei poveri”, tanto che nella memorialistica resistenziale ricorre sempre il riferimento alla fame patita, soprattutto durante le azioni di guerriglia e i ripiegamenti per sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti, come si apprende da alcuni passi del diario partigiano di Aldo Ferrero:
“…si è consumato il primo pasto, e per di più caldo, dopo giorni di mirtilli e acqua. Molti hanno la dissenteria, altri il vomito (…) Quelli che si fanno sentire sono i morsi della fame.”
Cose analoghe le descrive Giorgio Bocca, anch’egli partigiano in Piemonte:
“…il riso stracotto che spesso era tutto il pasto…”
Molti reparti rimasero per alcuni giorni senza pane e senza carne, mangiando patate bollite o castagne, ma continuando a lavorare e combattere.
Il mangiare come rito collettivo
Quando la lotta partigiana consentiva delle pause o la cattiva stagione imponeva dei rallentamenti delle operazioni militari, il momento del ritrovarsi per mangiare era quello in cui la comunità partigiana cercava di ricreare una parvenza di vita libera dalla guerra. L’aspetto della socializzazione tra eguali nell’atto di dividersi anche il cibo, appare in modo assai evidente in tutti i ricordi di chi visse quell’esperienza. La «mensa» e la «sala riunioni» sono nello stesso locale, nella stalla più grande.
In una grangia accanto, la cucina e il magazzino viveri; nelle altre baite, cinque o sei, i dormitori (…) Qui, nella «sala riunioni», ogni sera si raccolgono a conversare, a ridere, a cantare. Ma se sulle montagne, quando era possibile, si rinnovava tra i partigiani questo rito collettivo, nelle città i combattenti dei GAP e delle SAP, conducevano una vita diversa, ben più grama, stretta dalle regole della clandestinità e dell’organizzazione in piccoli nuclei.
Il vino
Il vino, come è noto, ha sempre avuto un posto importante nella storia proletaria e non fa certo eccezione il capitolo della lotta partigiana.
Il vino buono per far tacere la fame, per riscaldare, per dare coraggio e anche per cantare. Molto bello il ricordo narrato da Giorgio Bocca;
“Non ho mai visto una guerra così strana, dice Alberto, la battaglia del vino. Per sette giorni di seguito, non abbiamo fatto che sparare e bere. I valligiani piuttosto di lasciare il loro vino ai tedeschi preferivano finirlo. Ogni paese in cui ci ritiravamo combattendo traeva dalle cantine le bottiglie più preziose. Ricordo Ponte Marmora. Avevamo piazzato il mortaio in un prato. Vicino alla bocca da fuoco e sparse tra le munizioni c’erano una trentina di bottiglie vuote, ma altre ancora piene sul carrettino col quale le avevano trasportate da Prazzo (…) Arrivò la reazione nemica, granate scoppiarono poco lontano e pallottole sibilarono nell’aria. Allora, senza scomporsi, caricarono il mortaio sul carrettino, vicino alle ceste delle bottiglie e, cantando, presero la strada per Prazzo.”
Un grazie di cuore a Marco Rossi per il materiale storiografico.
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