Dopo Taurasi: verità e bugie agricole, cambio passo nella ricerca
Cosa c’è di importante oggi?
A Castelvenere la Festa del Vino, edizione 32 pensa un po’ te, ospita il primo Festival meridionale delle Piccole Vigne con 22 cantine affiancate a quelle del comune più vitato della Campania, un festival senza proclami ideologici (non c’entrano nulla vocaboli come: autoctono, biodinamico, biologico) all’insegna di un comune minimo denominatore: aver sposato a tal punto le esigenze della propria vigna sino a farne una ragione di vita.
Ah, si rincorre il piccolo…
Beh, il piccolo c’è sempre stato, a ben vedere lo abbiamo tirato fuori proprio noi negli anni ’90, azienda dopo azienda, nessuna esclusa.
Sì, era piccolo perché si affiancava a grande. Qual è la differenza oggi?
Molto profonda, la vicenda dell’annullamento della Fiera di Taurasi chiude definitivamente un ciclo decennale di ricerca e mappatura sul campo e questa manifestazione, benché pensata prima di questo accadimento assurdo, sancisce un vero e proprio passaggio di testimone
Generazionale?
Sì, può anche essere questo
E poi che?
Sinora l’ambizione del nostro progetto è stato illuminare l’esistente, in qualunque forma si manifestasse, riuscire a fare lo zoom lì dove le grandi guide tradizionali non potevano arrivare per ovvi motivi editoriali, e dunque dare a tutti una possibilità di vetrina partendo dal presupposto che investire in campagna è sempre più etico che sputtanarsi i soldi a Capri. Il non essere legati a contributi pubblici o a investimenti pubblicitari privati ha reso tutto questo gigantesco lavoro assolutamente credibile e inattaccabile. Ma la vicenda di Taurasi spiega come questo non basta più, si deve assolutamente andare oltre, rompere con l’atteggiamento perdonista e giustificazionista che sinora ha relegato nel mero osservare gentilmente cose che andavano almeno sottolineate con maggiore puntigliosità.
Traditi dall’aspetto commerciale che ha preso piede?
Magari fosse stato così. Il punto è che il navigare a vista, la miopia, la mancanza di aggiornamento costringono tutti noi a tornare improvvisamente indietro come si fa nel gioco dell’oca. Quando un buon produttore irpino di Fiano non capisce che deve creare cru e sfrutta la visibilità conquistata solo per piazzare un po’ di Falanghina acquistata nel Sannio, beh la sua stupidità commerciale colpisce tutta la credibilità della filiera e lui si troverà a competere con il Fiano piantato altrove dalle grandi aziende e dunque è destinato a scomparire. Come se un camiciaio famoso decidesse improvvisamente di fare giubbottini in materiale plastico per i punti Esso. Sarà spazzato via dai cinesi.
Questo fenomeno non riguarda solo il Sud: nelle Langhe, a Montalcino e in Valpolicella si sono piantate vigne dove prima crescevano patate e cipolle.
Vero, il sistema vitivinicolo italiano è complessivamente immaturo, ma la pochezza commerciale meridionale accentua le difficoltà.
Allora la speranza sono i piccoli perchè i grandi sono cattivi?
Assolutamente no. Qui lo scontro non è tra grande e piccolo, ma tra verità e bugia. Alcuni in questi anni hanno identificato la bugia, il male, con il commerciale e la dimensione, ma le cose non stanno affatto così, spesso la truffa culturale e colturale alligna proprio più facilmente quando si presenta sotto forma di piccola realtà a dimensione d’uomo. Salvo poi a spiegare come fai con un paio di ettari a produrre Fiano, Greco, Falanghina, Taurasi, Aglianico Campi Taurasini e Aglianico Campania igt. Mi sembra la gloriosa formazione della grande Inter snocciolata da Niccolò Carosio: Sarti, Burnich Facchetti, Bedin, Guarneri etc etc
Questa adesso è un po’ grossa, in fondo parliamo di vino. La verità è ciò che si vende e la bugia da sempre aiuta a farlo
Appunto.
La verità? Beh, dammi allora la tua definizione per approssimazione visto che da tremila anni il pensiero occidentale non ci è arrivato. Hanno ragione i tuoi nemici, sei troppo presuntuoso
Non ci provo, uso il vocabolo senza implicazioni ontologiche, ma mediatiche, per semplificare come siamo abituati a fare noi che lavoriamo nei quotidiani. La verità di un’azienda è quando il suo progetto coincide con quello che comunica e pensa nel profondo. Non c’entra dunque essere grandi, medi o piccoli. La manifestazione di oggi è un’articolazione di questo ragionamento, la ricerca della coerenza come unica possibilità rurale, agricola, mediatica. Avremmo benissimo potuto fare i grandi vini delle grandi aziende. Anche perché in Italia, come ben sappiamo, usare grande per definire una impresa vitivinicola è una forzatura.
All’inferno i produttori bugiardi.
Dunque adesso cosa si farà?
Cerchiamo di mettere in rete le verità produttive, ovunque e comunque si manifestino, stando ben attenti però ad inserire tutto nel contesto agricolo e ambientale perché il vero scontro sociale del futuro è questo, tra chi inquina e chi pulisce, tra il bello e il brutto.
Verde post mortem?
Vedi? Il problema in Italia è che non c’è rappresentanza politica adeguata alle profonde domande di riorganizzazione dei nostri territori. C’è un nuovo scontro di controllo territoriale che il ceto politico ha rinunciato a governare limitandosi a riprodurre se stesso con stanchi e insopportabili rituali feudali. Il caso di Taurasi è davvero emblematico.
Già, nessun produttore ha protestato
Guarda, il problema non è il sindaco Buono, nomen omen. Lui da bravo politico locale ha capito che il consenso in questa realtà non c’entra nulla con il vino che lo rappresenta nel mondo e che la protesta di chi non dorme la sera per la confusione vale eventualmente quella di Antonio Caggiano che ha portato centinaia di turisti in un posto cancellato dalla carte geografiche del muoversi turistico. Il vero problema, è mio perchè in questi ultimi anni ho perso di vista il metodo che ci avevano insegnato da ragazzi.
Vecchia talpa, già ho capito dove vai a parare. Vorrei poterti dire ben scavato!
Sì l’inchiesta sociale: l’essere sociale determina la coscienza, certo non in maniera meccanicistica come ritenevamo negli anni ’70, ma il movimento profondo del nostro pensiero ha sempre un aggancio preciso con il modo con cui si porta il piatto a tavola. A ben vedere, su 160 aziende vitivinicole irpine della mia ultima guida, quelle che vivono esclusivamente di reddito agrario sono una trentina, più una decina come ramo imprenditoriale di altre attività. Per il resto si tratta di professori, pensionati, impiegati della pubblica amministrazione, liberi professionisti, che prima conferivano le uve ai Mastroberardino e ai Feudi e che successivamente, di fronte al crollo dei prezzi, hanno pensato di imbottigliare per difendere questo reddito aggiuntivo e magari sfruttare il momento. Molti non bevono neanche e ignorano totalmente il mondo vitivinicolo italiano. I giovani assunti si contano sulle punte delle dite delle mani, in venti anni a Taurasi si è aperto solo un winebar mentre quello della piazza è ormai un reperto archeologico per la sua immobilità estetica, tra poco ci dovremo mettere il vincolo della sovrintendenza. Dunque, a differenza della Puglia, della Sicilia, del Sannio, ma direi anche dello stesso Vesuvio, non c’è uno scheletro sociale che vive solo grazie all’uva. Qua nessun viticoltore ha mai bloccato una strada. Del resto se fino al 1990 le aziende irpine erano solo 11 non possiamo pensare che in 19 anni sono diventati tutti contadini. Questo è il motivo per cui ognuno va per fatti suoi, non ci sono associazioni che funzionano, non si riesce ad incidere sulle manifestazioni e sulle scelte urbanistiche dei comuni: in fondo il fare vino è solo un hobby collettivo di territorio. Fatto bene per carità, a volte molto interessante, taluna emozionante. Ma la differenza è la stessa tra i pescatori professionali e quelli dilettanti, insomma. Il secondo, anche se non becca nulla, scende dalla barca e va a studio. Ecco perché nelle aziende nessuno risponde, i siti fanno schifo, i ristoratori sono spesso costretti a pregare per avere un consegna, le manifestazioni chiudono. Provate solo a pensare la delocalizzazione del Tribunale o dell’Ospedale di Avellino e vedrete che casino sui giornali! Invece chiude la Fiera Enologica e nessuno se ne importa più di tanto.
Tutto questo è molto chiaro. Saranno questi i motivi per cui c’è un tanto pessimismo in giro?
Il pessimismo deriva dalla crisi economica e dal fatto che l’Italia per la prima volta sta attraversando una fase storica completamente senza idee e senza progetti che non siano i propositi inumani e razzisti della Lega, l’arricchitevi e scosciatevi berlusconiano e l’eterna rincorsa al centro dell’opposizione, ormai scavalcata a sinistra persino da Fini e Alemanno.
Allora proprio perché la situazione è così disastrosa il lavoro si raddoppia e bisogna impegnarsi a fondo. Mettere a sistema le eccellenza, riunire le verità produttive, battersi contro la forza devastratrice del reddito edilizio, tutelare il bello, esaltare la biodiversità, non fare sconti su chi sostiene Ogm e fast food anche se si presenta con il volto pulito: bisogna davvero rimboccarsi le maniche?
Sì, il principio è vendere quando tutti comprano e viceversa. Se tutti sono pessimisti vuol dire che c’è margine per nuove idee e nuove proposte, altrimenti non si spiegherebbe il grande miglioramento nelle campagne meridionali degli ultimi quindici anni e il ritmo degli investimenti privati che prosegue a tambur battente. Chi si è reso conto che non c’è alternativa raddoppia gli sforzi. E un altro aspetto molto positivo è che è aumentato il numero dei narratori e dei degustatori, i semi piantati negli ultimi anni con i corsi Ais, Slow Food, i master del Gambero stanno fruttificando, come pure l’onda lunga del corso di Enologia ad Avellino. Questa è una cosa bellissima: basti pensare che sino a dieci anni fa in tutto il Sud scrivevano Mimi Manzon, Pasquale Porcelli, Manuela Piancastelli e io. Adesso c’è un fiorire di scrittura e di tecnica di degustazione molto deciso e determinato, magari non sempre positivo ma comunque interessante, la Campania è in pole enogastronomica assieme a Piemonte, Veneto e Toscana come si evince anche dalla rete. La Sicilia sta per decollare grazie all’Etna e la Puglia guadagna enorme spazio grazie a nuovi protagonisti nel piatto e nel bicchiere. Per non parlare del settore puramente gastronomico che fa della Campania in particolare una superpotenza in Europa. C’è ormai una terza generazione al lavoro, nelle cantine come nei ristoranti, e una robusta schiera di narratori e degustatori: il settore finalmente parla e scrive.
Cambiare registro allora o serrare le fila?
Serve fantasia, mettere in rete le verità, sostenere l’eccellenza, uscire dalle vecchie degustazioni ospedaliere e dal linguaggio esoterico per pochi. Se molto è stato fatto, moltissimo c’è ancora da fare. In Italia la cultura del vino e della qualità agricola è di una minoranza, bisogna evitare di diventare una riserva indiana radical-chic e avere l’ambizione di incidere sul territorio. Il punto è che in Italia le grandi correnti culturali politiche sono urbane: comunismo e socialismo, il fascismo e lo stesso cattolicesimo sociale. La battaglia tra queste correnti si è combattuta qui e l’aggancio con la campagna è sempre stata una strumentale alleanza elettorale. In verità l’agricoltura non è mai stata al centro di alcun progetto politico. Tanto meno oggi, con il paradosso che non c’è mai stata tanta forza mediatica corrispondente alla nullità amministrativa e politica. Il blocco sociale che domina è sostenuto dagli imprenditori edili che hanno come obiettivo proprio l’aggressione alle ultime aree e l’ulteriore sottrazione di spazio agricolo. Occorre organizzare una resistenza capillare e culturale, non subalterna come quella dell’opposizione che rincorre lo stesso ceto sociale il quale, giustamente, preferisce l’originale, cioé la destra di rapina, alla sua imitazione, la sinistra delle varianti ai piani regolatori.
E il sito?
Seguirà questo processo estendendo sempre di più l’interesse all’agricoltura nel suo complesso con alcune piccole novità in arrivo
Quali?
Mo’ basta, devo partire per Castelvenere.
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