FONTANAVECCHIA
Orazio Rillo
Uva: falanghina
Fascia di prezzo: da 15 a 20 euro
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno
Serata tra addetti ai lavori ed amanti del mondo del vino per salutare il battesimo delle novità della cantina di Libero Rillo. Tutto ben riuscito grazie all’organizzazione dalla delegazione sannita dell’Ais guidata da Maria Grazia De Luca (la serata è stata anche l’occasione per la consegna dei diplomi ai nuovi sommelier sanniti). Quattro vini in degustazione: apertura e chiusura affidata alla poliedricità del vitigno falanghina (servito nella versione spumantizzata dell’etichetta ‘Nudo eroico – Spumante extra dry’ ed in quella d’annata dell’etichetta ‘2001 – Beneventano igt’) con la parte centrale riservata alle novità assolute dello spumante rosè brut da uve aglianico ottenuto con metodo classico ed il Fiano 2008 (in veste Sannio doc). Due vini che meritano un’ulteriore attesa per essere degustati nella loro elevazione ottimale, anche se a dire il vero lo spumante di aglianico (che Libero ha voluto “dedicare” al principe longobardo Lotario) in abbinamento allo sfizioso piatto proposto (culatello, tartina con salmone affumicato ed olio extravergine di oliva Racioppella dell’Olivicola del Titerno, lardo di maiale nero casertano su paté di olive ed ottimo formaggio di malga del Trentino a cui è seguito un assaggio si saporita pasta e fagioli cannellini con guanciale di maiale) ha convinto molto più che in degustazione. Intanto, in attesa dell’evoluzione di queste due etichette non resta che segnare l’ennesima straordinaria prova che in degustazione ha dato la falangina ‘2001′. Inutile specificare che siamo dei veri e propri “tifosi” di questo straordinario bianco ma ci piace sottolineare con forza che in questo frangente il vino si presenta in grande spolvero, addirittura più piacevole che nelle precedenti degustazioni. Provato per la prima volta nel maggio 2007, bevuto insieme ad Angelo Pizzi durante la bella domenica di ‘Cantine Aperte’, poi riprovato diverse volte fino alla sua uscita ufficiale a Napoli nella primavera dell’anno scorso (durante la magica serata alla ‘Trattoria Sessantanove’) è riuscito a convincerci ancora di più per via della riduzione a cui è andata incontro la tendenza al dolce. A giovarne è la sapidità che emerge in modo marcato e persistente una volta deglutito il vino. Per il resto tutto come prima, quasi come se quest’altro anno non fosse mai trascorso. Sono ormai passati ben cinque anni da quando questo vino è finito in bottiglia ma siamo certi che altri ancora dovranno trascorrerne prima di vederlo decadere. Il vino piace quando suscita emozioni, ecco perché siamo veramente tifosi di questa falanghina per cui diciamo grazie a Libero, al papà Orazio (il vero artefice dell’ottimo lavoro in vigna ed in cantina) ed all’energico Angelo: una triade protagonista in questi ultimi anni di tanti ben riusciti progetti enologici. E questo per il bene dell’intero Sannio.
(Pasquale Carlo)
Assaggio del 26 novembre 2008. Brrr. E l’estate di San Martino annunciata dalla spettacolare giornata dello scorso11 novembre che fine ha fatto? La Campania calata sotto una coltre plumbea di nuvole e sferzata dal vento si aggiunge in questi giorni ai bollettini di guerra provenienti da tutta Italia per il maltempo. Lunedì sera, di ritorno da Anteprima di Vitigno Italia dove ero arrivata quasi volando, trascinata dal mio ombrellino aperto a mo’ di scudo, avevo ripercorso mentalmente la cena pronta per essere servita (crostini con salsa al tartufo, zuppetta di cereali mediterranea, baccalà al profumo di limone con passatina di ceci e insalata di pompelmo e finocchi ai semi di girasole), e pensavo che ci sarebbe stato bene un bianco. Un francese, un tedesco? Certo uno con determinate caratteristiche, che sostenesse i piatti terragni della serata. Perché no? Campano. Che abbia fatto un po’ di legno. “Bianco, con il freddo che fa?” Un brivido mi era salito per la schiena pensando ai 12 gradi del liquido e al vento che ha isolato le isole del Golfo. Ma me ne ero fatta una ragione. Ero decisa: la Falanghina di Libero Rillo, la “2001”, che ho gelosamente conservato per seguirne l’evoluzione, dopo la presentazione fattane dallo stesso lo scorso 18 febbraio alla Trattoria Sessantanove di Napoli, la vedevo bene con quelle pietanze. Quella sera era andata alla grande con la genovese di carne e di tonno. Un bianco un po’ rosso. I suoi 14,5 gradi, e il suo corpo, ci avrebbero confortato del tradimento del santo campanaro. Volevo aprirla. Ai miei ospiti ho dato scarsa facoltà di scelta. Temevo il pregiudizio tipico dei campani che associano la Falanghina alle cenette estive in riva al mare, con trenta gradi e le bruschette al pomodoro. Non si può pretendere da tutti che siano aggiornati rispetto alle nuove potenzialità di questo vitigno e alle tendenze di gusto che sospingono anche i bianchi verso nuovi lidi di longevità. Come la Falanghina 2001 dell’azienda di Torrecuso. Ma dopo averla stappata e versata nel bicchiere ero già pentita. La Falanghina scende sonora e pesante nel bicchiere che si illumina di un giallo sole, carico e luminoso. Dorato. Brillante. C’è poca luce a tavola, quella delle candele, e quella del vino che colpisce i presenti per la sua invitante colorazione. Al naso subito si percepisce una netta nota minerale e poi, passato qualche secondo, il vino si apre lasciando uscire dal bicchiere sentori di miele di millefiori, mandorla e idrocarburi. In bocca scende morbido, avvolge la lingua. E’ burroso e caldo. Ritornano ben bilanciate le sensazioni olfattive. Sorprende la sua persistenza e, ancora di più, una notevole spinta acida. Piacevole e stimolante che ripulisce la bocca dalla pastosità del baccalà. Sono pentita, dicevo: “Dovevo tenerla ancora da parte” mi sono detta. Ma non mi stanco di prenderne sorsate, mentre gli altri, come previsto, commentano “non sembra una Falanghina!”. “E invece si” faccio tra me e me. Anche se il mio pensiero corre a un Riesling che la sfida del tempo la vince con sciabolate di eleganza.E mi viene in mente che io stessa, quando sono in giro per la Campania, di fronte a un bel posto, curato e bucolico, incredula, cado nella trappola di dire “non mi sembra la Campania”. E’ invece questa la strada: c’è la Falanghina rinfrescante per l’estate e quella per l’inverno. C’è una Campania “che va” e quella che va meglio. Tutto sta a conoscerle e a dar loro una chance di sorprenderci.
(Monica Piscitelli)
Assaggio del 26 marzo 2008. Le possibilità offerte dalla Falanghina nel Taburno sono infinite. Lo avevo compreso quando per puro caso trovai un Vigna del Monaco di Ocone a casa di un’amico e l’aprimmo benché vecchia di cinque anni. Allora, parlo degli anni ’90, sembrava una enormità. L’esperienza ha poi dimostrato come questo vitigno non teme affatto la concorrenza di Fiano e di Greco e riesce ad esprimersi molto bene sui tempi lunghi, grazie all’alcol, la struttura e l’acidità. Questo numero per ora unico era pensato per l’esportazione in America e non è figlio di un progetto di sfida agli anni, il legno sicuramente ha aiutato ma non è l’elemento essenziale perché esperimenti simili riportano Falanghina integre anche se lavorate solo nell’acciaio. Riprovata come vino da meditazione a Pasquetta dopo le performance mediatiche di gennaio dove è stata ben censita da tutti (Gimmo ad esempio l’ha definita il migliore bianco campano in circolazione) per il lancio fatto a Napoli alla Trattoria Sessantanove, ha nuovamente colpito per la sua complessità olfattiva segnata da un filo ossidato ma non troppo di natura essenzialmente dolce, quasi a mettere il naso in un vaso di fiori di camomilla secchi e zafferano, poi alcune note minerali lo assimilavano per certi versi ad un greco irpino di stagione, poi ancora la sensazione di albicocca sciroppata. Insomma una conferma piena dell’annata e dell’uva. In bocca queste sensazioni tornavano regalando alla beva una sensazione inconsueta per i bianchi campani e tipica di quelli francesi, con una corrispondenza piena e appagante, finalmente la freschezza inizia ad essere domata e a rientrare nei ranghi dopo sette e passa anni! Ma questo riallinearsi del tono fondamentale della Falanghina del Taburno non ha dato affatto l’idea di un vino in ritirata, anzi, di un bianco che ha trovato il suo punto più alto di espressione, come a dire che la sfida contro il tempo inizia solo adesso. Ci vogliono annate particolari per ottenere questi risultati e il rischio, mi osservava giustamente Vito Puglia, è appunto quello di fare esecuzioni uniche, che se da un lato regalano il privilegio di poterle bere, dall’altro però chiudono il ciclo impedendo alla storia di quel terroir di potersi esprimere ed essere conosciuta nel corso degli anni. Il Taburno è infatti ad un bivio: continuare, come tanti altri territori del Sud, a fare un buon vino, sia bianchi che rossi, oppure fare il salto di qualità e impennarsi scegliendo la docg per l’Aglianico e lavorando sui bianchi di invecchiamento visto che qui la materia prima non manca, né per qualità e né per quantità. Solo così i sanniti si libereranno del complesso di inferiorità accumulato nei confronti degli irpini negli ultimi quindici anni. Aziende come Rillo e La Rivolta, e poi la Cantina del Taburno e Ocone, e ancora Nifo, Cantine Tora, Devi, Caput Albis, Torre del Pagus e ancora altre hanno dimostrato di fare prodotti di grande livello, tale da svegliare l’attenzione del mercato americano grazie al migliore rapporto fra qualità e prezzo rispetto alla media irpina. Il Sannio, per la sua poliedricità, può riconquistare il primato perduto se riesce a svoltare: docg per il Taburno e bianchi di lunga durata. Del resto ormai le alcune aziende hanno raggiunto la capitalizzazione necessario per lavorare ogni anno su 5000-10.000 bottiglie da stoccare. Staremo a vedere, ciascuno è faber del proprio destino. Intanto però ci godremo ancora a lungo questo bianco d’annata, dalla chiusura pulita e lunga, con una beva che torna perché mai appagata da tanta bontà. E mi viene anche un’altra osservazione: il primo a fare un’ordine, la cosa circolava solo come annuncio su questo sito, è stato Alfonso Iaccarino. Una lezione, l’ennesima, a quei ristoratori che si credono grandi affidandosi alle carte franchaising con cui hanno imbottito le loro cantine di vini che mai nessuno ordinerà, anche se pagati a caro prezzo: basta essere informati e credere nei prodotti per crearsi una cantina di prestigio senza svenarsi e al tempo stesso qualificata culturalmente.Da bere sui prosciutti unici di Pietraroja o sul culatello di maiale nero di Tommaso Salumi.
Sede a Torrecuso, via Fontanavecchia
Tel. e Fax 0824.876275
Sito: http://www.fontanavecchia.it
Email: info@fontanavecchia.it
Enologo: Angelo Pizzi
Bottiglie prodotte: 150.000
Ettari: 12 di proprietà
Vitigni: aglianico, piedirosso, cabernet sauvignon, merlot, falanghina
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